Chi è stato Totò Riina

Riina, protagonista di primo piano proprio della stagione delle Stragi, conosciuto come ‘Totò u curtu’ per via della bassa statura e ‘La Belva’ per la sua ferocia sanguinaria, aveva iniziato la sua carriera criminale ben presto. Nato in una famiglia di contadini, negli anni Quaranta Riina venne affiliato a Cosa nostra da Luciano Liggio, con il quale partecipò alla guerra contro il vecchio capomafia di Corleone Michele Navarra ed i suoi uomini.

A 19 anni Riina fu condannato ad una pena di 12 anni, scontata parzialmente nel carcere dell’Ucciardone, per aver ucciso in una rissa un suo coetaneo. Riina tornò da solo a Corleone, dove venne arrestato e gli venne applicata la misura del soggiorno obbligato; scarcerato e munito di foglio di via obbligatorio, Riina non raggiunse mai il soggiorno obbligato e si rese irreperibile, dando inizio alla sua lunga latitanza.

Il 10 dicembre 1969 Riina fu tra gli esecutori della cosiddetta strage di Viale Lazio, che doveva punire il boss Michele Cavataio. Nel periodo successivo Riina sostituì spesso Liggio nel “triumvirato” provvisorio di cui faceva parte assieme ai boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, che aveva il compito di dirimere le dispute tra le varie cosche della provincia di Palermo. Riina e Liggio divennero i principali capi-elettori del loro compaesano Vito Ciancimino, il quale venne eletto sindaco di Palermo; nel 1971 Riina fu esecutore materiale dell’omicidio del procuratore Pietro Scaglione.

Nel 1978 Riina ottenne l’espulsione di Badalamenti dalla Commissione, con l’accusa di aver ordinato l’uccisione di Francesco Madonia, capo della cosca di Vallelunga Pratameno (Caltanissetta) e strettamente legato ai Corleonesi; l’incarico di dirigere la “Commissione” passò a Michele Greco, che avallerà tutte le successive decisioni di Riina. Per queste ragioni, Giuseppe Di Cristina, capo della cosca di Riesi legato a Bontate e Badalamenti, tentò di mettersi in contatto con i Carabinieri, accusando Riina e il suo luogotenente Bernardo Provenzano di essere responsabili di numerosi omicidi per conto di Liggio, all’epoca detenuto; alcuni giorni dopo le sue confessioni, Di Cristina venne ucciso a Palermo.

Nel 1981 Riina fece eliminare Giuseppe Panno, capo della cosca di Casteldaccia, strettamente legato a Bontate, il quale reagì organizzando un complotto per uccidere Riina, che però venne rivelato da Michele Greco; Riina allora orchestrò l’assassinio di Bontate. L’11 maggio 1981 venne ucciso anche il boss Salvatore Inzerillo, strettamente legato a Bontate. I due omicidi diedero inizio alla cosiddetta «seconda guerra di mafia» e, nei mesi successivi, nella provincia di Palermo, i boss dello schieramento che faceva capo a Riina uccisero oltre 200 mafiosi della fazione Bontate-Inzerillo-Badalamenti, mentre molti altri rimasero vittime della cosiddetta lupara bianca. Il massacro continuò fino al 1982, quando si insediò una nuova “Commissione”, composta soltanto da capimandamento fedeli a Riina e guidata dallo stesso Riina.

Legami con la politica
Il principale referente politico di Riina inizialmente fu Vito Ciancimino, il quale nel 1976 instaurò un rapporto di collaborazione con la corrente di Giulio Andreotti, in particolare con Salvo Lima, che sfociò poi in un formale inserimento in tale gruppo politico e nell’appoggio dato dai delegati vicini a Ciancimino alla corrente andreottiana in occasione dei congressi nazionali della Democrazia Cristiana svoltisi nel 1980 e nel 1983. Per proteggere gli interessi di Ciancimino, Riina propose alla “Commissione” gli omicidi dei suoi avversari politici: il 9 marzo 1979 fu ucciso Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana che era entrato in contrasto con costruttori legati a Ciancimino; il 6 gennaio 1980 venne eliminato Piersanti Mattarella, presidente della Regione che contrastava Ciancimino per un suo rientro nel partito con incarichi direttivi; il 30 aprile 1982 venne trucidato Pio La Torre, segretario regionale del PCI che aveva più volte indicato pubblicamente Ciancimino come personaggio legato a Cosa Nostra.

Lima si sarebbe attivato per modificare in Cassazione la sentenza del Maxiprocesso di Palermo che condannava Riina e molti altri boss all’ergastolo. In particolare, il collaboratore Baldassare Di Maggio riferì che nel 1987 accompagnò Riina nella casa di Ignazio Salvo a Palermo, dove avrebbe incontrato Lima e il suo capocorrente Giulio Andreotti per sollecitare il loro intervento sulla sentenza; la testimonianza dell’incontro venne però considerata inattendibile nella sentenza del processo contro Andreotti.

Tuttavia il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò gli ergastoli del Maxiprocesso e sancì l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal pentito Tommaso Buscetta. Sempre secondo le testimonianze dei collaboratori di giustizia, Riina decise allora di lanciare un avvertimento ad Andreotti, che si era disinteressato alla sentenza e anzi aveva firmato un decreto-legge che aveva fatto tornare in carcere gli imputati del Maxiprocesso scarcerati per decorrenza dei termini e quelli agli arresti domiciliari: per queste ragioni il 12 marzo 1992 Lima venne ucciso alla vigilia delle elezioni politiche e, alcuni mesi dopo, la stessa sorte toccò a Ignazio Salvo.

Le deposizioni dei collaboratori di giustizia (su tutti Tommaso Buscetta) scateneranno la ritorsione di Cosa Nostra su precisa indicazione di Totò Riina, il quale autorizzò i capofamiglia a eliminare i familiari dei pentiti “sino al 20º grado di parentela”, compresi i bambini e le donne. Ma non aveva nemmeno trascurato “certe azioni” compiute dai cosiddetti “cani sciolti”. Ce l’aveva con uno di quest’ultimi che taglieggiava la povera gente con lo strozzinaggio: Francesco La Bua, sul quale giungevano notizie e azioni deplorevoli pure ad uno come Riina. Infatti Salvatore Cucuzza e Salvatore Cancemi, prima di diventare collaboratori di Giustizia, avevano informato il boss corleonese che La Bua disturbava con le sue azioni il mandamento di Porta Nuova. L’eliminazione avvenne con la più classica e atroce morte mafiosa: darlo in pasto ai maiali. Per Salvatore Riina taglieggiare la povera gente era un’azione condannabile con la morte.

Il Papello e la trattativa con lo stato
L’allora vicecomandante dei Ros, Mario Mori, incontrò tra giugno e ottobre 1992 Vito Ciancimino, proponendo una trattativa con Cosa Nostra per mettere fine alla lunga scia di stragi che insanguinavano Palermo. La proposta era in realtà, secondo la versione fornita da Mori, una trappola per cercare di stanare qualche latitante, ma Riina rispose alla richiesta con il famoso Papello, un documento di richieste per ammorbidire le condizioni dei detenuti, degli indagati, delle loro famiglie, la cancellazione della legge sui pentiti e la revisione del maxiprocesso.

L’esistenza della trattativa tra stato e Cosa Nostra è stata successivamente smentita dallo stesso Mori. Il 12 marzo 2012, però, nella motivazione della sentenza del processo a Francesco Tagliavia per le stragi del 1992 – 1993, i giudici scrivono che la trattativa tra Stato e Cosa nostra “ci fu e venne quantomeno inizialmente impostata su un do ut des […] L’iniziativa fu assunta da rappresentanti dello Stato e non dagli uomini di mafia”.

L’arresto
Il 15 gennaio del 1993 fu catturato dal CRIMOR (squadra speciale dei ROS guidata dal Capitano Ultimo). Riina, latitante dal 1969, venne arrestato al primo incrocio davanti alla sua villa, in via Bernini n. 54, insieme al suo autista Salvatore Biondino, a Palermo. Nella villa aveva trascorso alcuni anni della sua latitanza, insieme alla moglie Antonietta Bagarella e ai suoi figli. L’arresto fu favorito dalle dichiarazioni rese nei giorni precedenti al generale dei carabinieri Francesco Delfino dall’ex autista di Riina, Baldassare (Balduccio) Di Maggio, che decise di collaborare per ritorsione verso Cosa Nostra, che lo aveva condannato a morte.

Le condanne
Nel 1992 Riina venne condannato in contumacia all’ergastolo insieme al boss Francesco Madonia, per l’omicidio del capitano Emanuele Basile. Nell’ottobre del 1993 subisce la seconda condanna all’ergastolo, come mandante dell’omicidio del boss Vincenzo Puccio. Nel 1994, altro ergastolo per l’omicidio di tre pentiti e quello di un cognato di Tommaso Buscetta.

Nel 1995, nel processo per l’omicidio del tenente colonnello Giuseppe Russo, Riina venne condannato all’ergastolo insieme a Bernardo Provenzano, Michele Greco e Leoluca Bagarella; lo stesso anno, nel processo per gli omicidi dei commissari Beppe Montana e Ninni Cassarà, venne pure condannato all’ergastolo insieme a Michele Greco, Bernardo Brusca, Francesco Madonia e Bernardo Provenzano, a cui seguì il processo per gli omicidi di Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Michele Reina, nel quale gli viene inflitto un ulteriore ergastolo.  Nel 1996 Riina venne nuovamente condannato all’ergastolo per l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Sempre nel 1995, nel processo per l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, del capo della mobile Boris Giuliano e del professor Paolo Giaccone, Riina venne condannato all’ergastolo.

Nel 1997, nel processo per la strage di Capaci, in cui persero la vita il magistrato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e la scorta (Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo), Riina venne condannato all’ergastolo e ancora nel processo per l’omicidio del giudice Cesare Terranova.

Nel 1998 arriva la medesima condanna per l’omicidio del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto; nel 1999 come mandante per la strage di via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque dei suoi uomini di scorta (Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina).

Nel 2000 per l’attentato in Via dei Georgofili, in cui persero la vita 5 persone e subirono enormi danni musei e chiese, oltre che per gli attentati di Milano e Roma. Nel 2002, per l’omicidio del giudice in pensione Alberto Giacomelli, Riina venne condannato all’ergastolo come mandante; lo stesso anno la Corte d’Assise di Caltanissetta condannò Riina all’ergastolo per l’omicidio del giudice Rocco Chinnici; sempre lo stesso anno, Riina venne condannato nuovamente all’ergastolo insieme al boss Vincenzo Virga per la strage di Pizzolungo, in cui persero la vita Barbara Rizzo e i suoi figli, Salvatore e Giuseppe Asta, gemelli di 6 anni.

Nel 2009 Riina ricevette un altro ergastolo, insieme a Bernardo Provenzano, per la strage di viale Lazio. Nel febbraio 2010 per l’omicidio di Giovanni Mungiovino, politico della DC che si era opposto alla mafia corleonese, Giuseppe Cammarata, scomparso nel 1989, e Salvatore Saitta, ucciso nel 1992.

Il 10 giugno 2011 viene assolto, per “incompletezza della prova” (ex art. 530 c.p.p.), dalla Corte d’Assise di Palermo per l’omicidio del 16 settembre 1970 del giornalista Mauro De Mauro. Il 26 gennaio 2012 gli viene inflitta una condanna all’ergastolo da parte della Corte d’Assise di Milano perché ritenuto il mandante dell’omicidio di Alfio Trovato del 2 maggio 1992, avvenuto in via Palmanova a Milano.

Il 14 aprile 2015 viene assolto dalla Corte d’Assise di Firenze dall’accusa di essere stato il mandante della Strage del Rapido 904 del 23 dicembre 1984 per mancanza di prove; il pubblico ministero aveva richiesto l’ergastolo per Riina, unico imputato. Nel 1992 erano stati condannati Pippo Calò, Guido Cercola, Franco Di Agostino e l’artificiere tedesco Friedrich Schaudinn.

Il carcere
A partire dal dicembre 1995, Riina è stato rinchiuso nel supercarcere dell’Asinara, in Sardegna. In seguito è stato trasferito al carcere di Marino del Tronto, ad Ascoli Piceno, dove, per circa tre anni, è stato sottoposto al carcere duro, previsto per chi commette reati di mafia (41-bis), ma il 12 marzo 2001 gli viene revocato l’isolamento, consentendogli di fatto la possibilità di vedere altri detenuti nell’ora di libertà.

Proprio mentre era sottoposto a regime di 41-bis, il 24 maggio 1994, fu raggiunto da Michele Carlino, giornalista di un’agenzia video (Med Media News), al quale rilasciò dichiarazioni minacciose contro il procuratore Giancarlo Caselli e altri rappresentanti delle istituzioni, lamentandosi delle severe condizioni imposte dal carcere duro. Dopo pochi mesi dalle dichiarazioni del boss corleonese il regime di 41-bis (allora valido per soli tre anni, decorsi i quali decadeva la sua applicabilità) è stato rafforzato mediante vari interventi legislativi volti a renderlo prorogabile di anno in anno.

Nella primavera del 2003 subisce un intervento chirurgico per problemi cardiaci, e nel maggio dello stesso anno viene ricoverato nell’ospedale di Ascoli Piceno per un infarto. Il 22 maggio 2004, accusa il coinvolgimento dei servizi segreti nelle stragi di Capaci e via d’Amelio, e riferisce dei contatti fra l’allora colonnello Mario Mori e Vito Ciancimino, attraverso il figlio di lui Massimo, al tempo non convocato in dibattimento. Trasferito nel carcere milanese di Opera, viene nuovamente ricoverato nel 2006 all’ospedale San Paolo di Milano, sempre per problemi cardiaci. Nel novembre 2013 trapela la notizia di minacce da parte di Riina nei confronti del magistrato Antonino Di Matteo, il pm che aveva retto l’accusa in numerosi procedimenti penali a suo carico. Il 4 marzo 2014 viene nuovamente ricoverato.

Nel 2017, gli avvocati di Riina fanno richiesta al Tribunale di sorveglianza di Bologna per il differimento della pena a detenzione domiciliare, sottoponendo come motivazione lo stato precario di salute dello stesso Riina. Il 19 luglio 2017 il Tribunale si pronuncia negativamente su questa istanza, spiegando che Riina “non potrebbe ricevere cure e assistenza migliori in altro reparto ospedaliero, ossia nel luogo in cui ha chiesto di fruire della detenzione domiciliare”.

 

La sua vita privata non fu mai veramente ‘privata’. Il 16 aprile 1974 Riina sposò, tramite un matrimonio che poi risulterà non valido legalmente, Antonietta Bagarella, sorella di Leoluca Bagarella. Dall’unione nacquero quattro figli: Maria Concetta (nata il 19 dicembre 1974), Giovanni Francesco (nato il 21 febbraio 1976), Giuseppe Salvatore (nato il 3 maggio 1977) e Lucia (nata l’11 aprile 1980). Giovanni Francesco è stato condannato all’ergastolo per quattro omicidi avvenuti nel 1995.

Giuseppe Salvatore è prima stato condannato per associazione mafiosa, quindi scarcerato il 29 febbraio 2008 per decorrenza dei termini dopo essere stato detenuto per otto anni. Il 2 ottobre 2011, dopo aver scontato completamente la pena di 8 anni e 10 mesi, viene nuovamente rilasciato sotto prevenzione con obbligo di dimora a Corleone e comincia a trapelare la notizia di un suo piano per fare un attentato all’ex Ministro della Giustizia Angelino Alfano per via dell’inasprimento del regime dell’articolo 41-bis.

POTREBBE INTERESSARTI

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *