Peppino Impastato, quarant’anni dalla sua morte

Era il 9 maggio del 1978, quando Giuseppe Impastato, conosciuto da tutti come Peppino, morì per mano della mafia. Quel giorno di quarant’anni fa la sua morte fu silenziosa, non fece notizia, dato che in quello stesso giorno, fu ritrovato anche il cadavere di Aldo Moro, a Roma.
Peppino Impastato era un giornalista e attivista Italiano, oltre che un poeta. Durante il suo percorso Peppino ebbe il coraggio di parlare della mafia, fare nomi e denunciare cosa nostra. Ecco perché morì, pagando con la vita il coraggio di parlare e non tacere davanti niente e nessuno.

La storia di Peppino Impastato

Peppino nacque a Cinisi, un paesino vicino Palermo, il 5 gennaio 1948, in una famiglia mafiosa. Il padre, Luigi Impastato, era stato inviato al confine durante il periodo fascista, mentre lo zio e altri parenti erano mafiosi, inoltre il cognato del padre era il noto capomafia Cesare Manzella.
Fu proprio il brutale assassinio di Manzella a ispirare l’impegno antimafia di Peppino, il quale rimasto traumatizzato da quell’esecuzione, a soli 15 anni ruppe con il padre, che lo cacciò di casa, e giurò: “E questa è la mafia? Se questa è la mafia allora io la combatterò per il resto della mia vita”.
Da quel momento avviò un’attività politico-culturale antimafia.

Il suo impegno culturale – politico e Radio Aut

Nel 1965 fondò il giornalino “L’idea socialista” e aderì al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria.
Dal 1968 in poi partecipò col ruolo di dirigente alle attività dei gruppi comunisti. Condusse le lotte dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Palermo in territorio di Cinisi, degli edili e dei disoccupati.
Nel 1977 Impastato fondò Radio Aut, un’emittente autofinanziata di controinformazione, dove prendeva in giro la mafia e i politici locali. Il primo di cui parlò in radio fu proprio il capomafia Gaetano Badalamenti, che Peppino aveva soprannominato “Tano Seduto”. Badalamenti aveva un ruolo di primo piano nei traffici internazionali di droga, attraverso il controllo dell’aeroporto di Punta Raisi. Il programma più seguito era Onda pazza a Mafiopoli, trasmissione satirica in cui Peppino sbeffeggiava mafiosi e politici.

La morte per mano mafiosa

Era la notte tra l’8 e il 9 maggio, quando Peppino fu rapito e fatto saltare in aria con una carica di tritolo, dopo essere stato immobilizzato sui binari della ferrovia della ferrovia Palermo-Trapani, così da far sembrare che si trattasse di un fallito attentato suicida. Il suo omicidio, tuttavia, passò in secondo piano, poiché lo stesso giorno venne ritrovato il corpo del presidente della Democrazia Cristiana, l’on. Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse.
L’omicidio di Impastato fu da subito identificato come un tentato suicidio o peggio ancora come un attentato terroristico finito male, nel quale l’attentatore era rimasto vittima del suo tentativo di sabotare la ferrovia.
Sui muri di Cinisi comparve un manifesto che dichiarava la matrice mafiosa dell’operazione, mentre a Palermo, invece, un altro manifesto recitava: “Peppino Impastato è stato assassinato dalla mafia“.
Al funerale parteciparono spontaneamente circa mille persone. Una grande folla composta prettamente da giovani, accorsi da tutta la Sicilia. Ai funerali di Peppino però non partecipò la gente di Cinisi, lasciando così la famiglia da sola.

Le indagini e il depistaggio

La prima mossa degli inquirenti fu l’interrogatorio dei compagni di Peppino, indicati come complici dell’attentatore: le loro case, come quella della madre Felicia e della zia, vennero perquisite, mentre nessun sopralluogo venne fatto nelle cave. Nonostante una relazione di servizio dei carabinieri sostenesse che l’esplosivo usato nel presunto attentato fosse dello stesso tipo di quello impiegato nelle cave.
Inoltre, la scena del crimine venne alterata: le prove, gli occhiali, le chiavi di Peppino Impastato, due pietre insanguinate sul luogo della morte, scomparvero nel nulla.

Solo la determinazione della madre di Peppino, Felicia, e del fratello, fece emergere la matrice mafiosa dell’omicidio, riconosciuta nel maggio del 1984 anche dall’ufficio istruzione del tribunale di Palermo.
Nel maggio del 1992 però, i giudici decisero l’archiviazione del caso, pur riconoscendo la matrice mafiosa del delitto. Il tribunale escluse la possibilità di individuare i colpevoli.

La riapertura del caso

Nel 1994 il Centro di documentazione dedicato a Peppino Impastato presentò la richiesta di riapertura del caso, accompagnata da una petizione popolare. Nell’istanza si chiedeva di interrogare il nuovo collaboratore di giustizia Salvatore Palazzolo, affiliato alla cosca mafiosa di Cinisi.
Nel giugno del 1996, in seguito alle dichiarazioni di Palazzolo, Badalamenti fu indicato come il mandante dell’omicidio insieme al suo braccio destro Vito Palazzolo, e l’inchiesta fu formalmente riaperta.
Nel novembre del 1997 fu emesso un ordine di arresto per Badalamenti, detenuto negli Stati Uniti.

Il 5 marzo 2001 la corte d’assise di Palermo condannò Vito Palazzolo a 30 anni di carcere per l’omicidio di Giuseppe Impastato. L’11 aprile 2002 Gaetano Badalamenti fu condannato all’ergastolo per essere il mandante di quell’omicidio.
Palazzolo e Badalamenti sono morti in carcere.

Nel 2011 la Procura di Palermo ha riaperto le indagini sul depistaggio, che sono tutt’ora in corso.

La lotta della madre

La madre di Peppino non si arrese mai, fino alla sua morte, il 7 dicembre 2004, Felicia Bartolotta, coniugata Impastato, continuò a lottare per rendere giustizia al figlio e per sconfiggere la mafia.
Nel 2004, dopo la morte, la sua abitazione è divenuta “Casa memoria Felicia e Peppino Impastato”.
Una grande donna, ma sopratutto una madre, che non si è mai arresa davanti a niente e a nessuno, pur di far arrestare i colpevoli della morte dell’amato figlio.

Peppino vive

Peppino Impastato vive ancora, vive nel cuore di tutti quei giovani e quelle persone che lottano giorno dopo giorno contro la mafia e per la libertà di espressione e informazione.
«Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi! Dobbiamo ribellarci prima di abituarci alle loro facce! Prima di non accorgerci più di niente» Queste le parole di Peppino.
Il mondo continua a ribellarsi, i giovani continuano a ribellarsi, trovando in lui un esempio da seguire, utilizzando la propria voce e i propri mezzi di comunicazione per denunciare e per onorare un uomo che pagò con la vita, il suo coraggio di libertà d’espressione e le sue denunce.

«I mafiosi hanno commesso un errore -dichiara Giovanni Impastato, fratello di Peppino-. Mettendolo a tacere, hanno amplificato la sua voce -continua -. Non è solo questione di quanto si fa sentire: è questione di qualità del messaggio, perché se è la vittima a parlare, tutti tacciono, perché la sua autorevolezza è indiscutibile».

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