De Gregori a Finale: un paradosso diventato realtà

Finale, Teatro Parco Urbano: sono le 21.29 di una domenica di fine estate. Tanto per cambiare, soffia un leggero ma fastidioso vento di maestrale e alcune nuvole grigie minacciano di addensarsi. Se non fosse stato per una gigantesca luna piena proprio alle spalle delle gradinate, anche il cielo sarebbe parso allibito.

Un uomo alto, altissimo, con un jeans scuro, una T-shirt a manica lunga blu notte e giacca di pelle entra in silenzio sul palco da dietro le quinte. Alza le mani al cielo e saluta, la schiena mostra di profilo un cenno di scoliosi. Neanche fa in tempo a partire la prima nota che la giacca viene messa via: fa comunque caldo, saranno state quelle palme installate tutto intorno a ricordargli che in fondo siamo al 26 di agosto. Francesco De Gregori intona il primo brano del suo concerto a Finale, provincia di Palermo, l’ultimo paese e poi il confine con un’altra provincia.

Due strade in croce, larghe quanto basta a contenere tutte quelle macchine che in processione hanno risalito via Dante in cerca di un parcheggio; ci sono anche quelli a Finale, vicino quanto basta, male che vada farai un breve tratto a piedi e il teatro sta là: tra le case e il campo in erba, oltre la scuola. Duemilacinquecento anime, la frazione del comune di Pollina è la casa al mare di tanti, e ospita come può tutti, posto che si sappia della sua esistenza. Alle 20.45 una giovane coppia risaliva la strada per raggiungere il luogo del concerto: “Vengo qua da 35 anni, non sapevo ci fosse un teatro”; mentre la gente prende posto, molti si disperdono lungo Via Sciascia, devono ancora arrivare. Qualcuno sintonizza il proprio smartphone su Google Maps, affidandosi alla voce meccanica rassicurante che tra poco esclamerà “Sei giunto a destinazione”.

Fa sorridere. De Gregori ne canta una dietro l’altra, il primo coro vero si alza solo sull’incipit di “Sempre e per sempre”, il suo concerto è come bere un bicchiere d’acqua, fresco, celere, godibile. Di brani ne sono seguiti diciotto, gestiti tutti con lo stesso grado di partecipazione da parte di un cantautore di grande esperienza e professionalità. A un concerto ci vai per cantarle tutte ma se così non fosse, il peggio che possa capitare è di ascoltarle tutte. La musica, le parole, il testo, soprattutto i testi di De Gregori che da soli raccontano storie o talvolta, sono solo poesie, piccoli cosmi accesi che ti attirano a loro. E la platea diventa un grande uditorio attonito e omogeneo, rinsaldato solo dal fuoco della musica.

Non aggiunge quasi nulla, se ha qualcosa da dire allunga le braccia e incoraggia il pubblico a mettersi in piedi: lo fa quando non è lui che vuole essere omaggiato, ma l’indimenticato Lucio Dalla, di cui interpreta “4 marzo 1943”. Le luci della scenografia disegnano la sua grande ombra, lo accompagnano cinque musicisti sul palco: Guido Guglielminetti al basso, Paolo Giovenchi alla chitarra, Alessandro Valle alla pedal steel guitar e Carlo Gaudiello al pianoforte, una formazione già sperimentata in autunno nel suo tour in Europa e negli Stati Uniti. Sul finale una sorpresa dal sapore tenero: appare Chicca, la moglie, che intona con lui Anima e Core. Due pezzi straordinariamente rappresentativi chiudono lo spettacolo, prima Alice, la storia di tanti che a questo mondo osservano da lontano, discretamente, la storia di chi in questo modo è capace di raccontare, come Francesco, la vita; e infine Rimmel, un epilogo che, come molti suoi testi, sembra aver scordato l’inizio. Una storia in media res, un amore che è stato e che adesso è finito, con uno strascico di inquietudine che non è solo rammarico, ma è capace in qualche modo di smuovere le anime.

La fine del concerto coincide con la fine dell’estate anche a Finale, che chiuderà nuovamente i battenti di questo sconosciuto Teatro. Un Parco Urbano immerso nella città, nascosto dalle case, nuovo ma con i primi pezzi di intonaco caduti. Ha acceso le sue luci per una notte, spalancando i cancelli e circondandosi di bella gente, anche di quella che passeggiava ai confini, incuriosita, incerta, sperando di strappare uno scatto e partecipare a quel coro social che vuole dire “io c’ero”. Prima ancora di riconoscersi in un evento perché tutti lo condividiamo però, c’era un altro modo di essere in trend topic: ed era cantare, timidamente, dal proprio posto, le parole di una canzone. Delicati, per la paura di stonare, se si tratta di canzoni da prendere con i guanti, come quelle di Francesco De Gregori.

Sono le 23.30 circa, De Gregori lascia il palco, stavolta per davvero. Una macchina è pronta a portarlo altrove e chissà se avrà chiesto “ma dove siamo? che c’è di bello da queste parti?”. Quante possibilità c’erano in fondo che quel palco fosse solcato da un siffatto artista? Uno di quelli che magari non piace a tutti e magari non è per tutti, ma ha un nome di forza e porta mille e più persone proprio qui, a Finale, impegnandole a cercare il Teatro Parco Urbano e, prendendo posto, a dire “ho trovato il tesoro”. E’ il teatro stesso che implora di essere usato ancora, e ancora, così. Finale ringrazia, qualcuno per aver assistito allo spettacolo di De Gregori, qualche altro per aver assistito a quanto conviene ospitare lo spettacolo di De Gregori.

 

Sofia D’Arrigo

 

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