Giù le mani dal Palio: non si distrugge l’identità di un popolo

È trascorsa più di una settimana dalla morte di Raol, il cavallo vittima di un tanto tragico quanto orribile incidente in occasione dell’edizione straordinaria del Palio di Siena, indetta per celebrare il centenario della Grande Guerra. More solito, non si è fatta attendere la scomposta e violenta reazione dei movimenti animalisti, che hanno tuonato contro la secolare manifestazione, della quale – a ragione – il Luzi ebbe a scrivere: «Il Palio è il Palio. Nessuna interpretazione sociologica, storica, antropologica, potrebbe spiegarlo. Sublimazione e dannazione insieme del fato di ogni singolo senese e della sua cittadinanza. Rogo furente della senesità, in ogni caso impareggiabile conferma di essa». Orbene, tal Rinaldo Sidoli, segretario di Alleanza popolare ecologista, è giunto financo a chiedere la soppressione del Palio, reo di aver cagionato la morte di ben 50 cavalli dal 1970 ad oggi. Al coro starnazzante si è unita – udite udite – la tenera voce di Michela Vittoria Brambilla, secondo la quale «le tradizioni, quando anacronistiche e crudeli, devono essere cambiate».

A queste accuse violente ed assolutamente gratuite occorre rispondere, e segnatamente attraverso due argomenti. Anzitutto occorre ribadire, ancorché sia evidente, che la morte del cavallo non è conseguenza diretta della gara, ma frutto di un tragico incidente. Il cavallo, al Palio, non è una bestia maltrattata, come sostiene la Brambilla: al contrario, è il vero protagonista della festa. Per di più, va ricordato che il Comune senese ha da sempre una grande attenzione verso i cavalli, come testimoniò, nel 1986, la giornalista Paola Fallaci: «dopo essere stata a Siena per vedere se sono crudeli con gli animali, ho deciso di rinascere cavalla». Una particolare sensibilità che ha trovato traduzione, tra le altre cose, in una convenzione con la clinica veterinaria “Il Ceppo”, dotata di moderne attrezzature diagnostiche nonché di una funzionale sala operatoria, o ancora nella creazione del Pensionario, dove vengono ospitati i cavalli da Palio vittime di infortuni o oramai anziani, alcuni dei quali diventati fattrici. Oltretutto, va detto che proporre l’abolizione del Palio per la sola ragione che esso potrebbe cagionare la morte di un cavallo sarebbe come proporre l’abolizione della circolazione automobilistica perché un eventuale incidente potrebbe cagionare infortunî o morti, sia esso frutto di una sfortunata contingenza o di un colpevole errore.

Il secondo e decisivo argomento afferisce invece al rapporto tra identità e tradizioni. Perché se anche si potesse addebitare al Palio la responsabilità della morte di quei cinquanta cavalli, è fuor di dubbio che sopprimere la manifestazione comporterebbe la distruzione di una secolare tradizione e, insieme, dell’identità di un intero popolo. Siena non ha il Palio: Siena è il Palio. Difendere questa Festa significa riconoscere che l’unico mondo multiculturale possibile è quello in cui si possono cogliere nettamente le diversità delle identità, e in cui queste ultime vanno quindi coraggiosamente preservate e difese, e non quello in cui a regnare è la contaminazione delle identità o, peggio, l’omologazione. Difendere questa Festa significa preservare lo spirito del popolo, che da tradizioni come questa trae linfa vitale e nutrimento. Per chiuderla con Gustave Thibon, «quando vedo marcire una radice, ho pietà dei fiori che seccheranno domani per mancanza di linfa».

 

Giuseppe Scialabba

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