La cantatrice muta, D’Alessandro e la geografia del disagio

Non é facile parlare di una personalità composita e poliedrica come quella di  Nicolò D’Alesssandro, artista, scrittore, critico d’arte, conoscitore di culture straniere; persona impegnata politicamente e nel sociale; intellettuale attivo, sin dagli anni Sessanta, nel dibattito culturale; autore, solo in quest´ultimo anno, di ben tre libri: “La favola del persiano guerriero”, “Carezza” e “La cantatrice muta e altri racconti”.

Quest’ultimo narra storie del vissuto; storie di fatti di cronaca narrate, a volte, tra ironia e sogno, tra realtà e fantasia; con peregrinazioni nel surreale.  Ma sempre pensate e soppesate.

Dodici racconti che tracciano la geografia del disagio, ma anche della semplicità quasi primordiale, della nudità dell´essere, e, pur tuttavia, della gaiezza che, paradossalmente, è spesso compagna di strada della povertà. Storie che si dipanano tra Santa Elisabetta, un minuscolo paesino dell´entroterra agrigentino, e Palermo disegnando un itinerario di   ricordi e di ritrovamenti di brandelli di vita ancora carichi di sentimenti ma delinea anche la mappatura dei problemi umani e delle atrocità delle mafie legate a certi raccapriccianti traffici internazionali.

Dall´entroterra agrigentino a Palermo; da ieri a oggi, la realtà difficile e miserevole, inquieta  e grottesca dell´ incomunicabilità e della prevaricazione rimane una costante. Rimane il silenzio. Eppure, paradossalmente, è proprio con il silenzio che si comunica come la cantatrice muta, come la guardatrice dell´acqua, come “ínnamorato di un´alga”, come la stessa “ciavola”. Quelli che non comunicano sono proprio i verbosi, gli esagitati come il barone Cachia, come Claudio, il protagonista delle “Ore sette e venti”, come i commensali del racconto  “La seppia”.

Il rifugio, pertanto,  è sempre lì, nella trasparenza dell´acqua che, tremolando e formando tanti cerchi, si trasforma lentamente in carta e in segno grafico: segno o scrittura?  o l´uno e l´altro?

Di fatto, non saprei parlare di D´Alessandro scrittore senza avere sotto i miei occhi i suoi disegni che sanno tanto di quel grafismo e calligrafismo tipico degli artisti  del Quattro- Cinquecento

Non saprei parlare di D´Alessandro saggista senza pensare ai drammi ancestrali della Sicilia, a quel concetto di sicilianesimo, sicilianità e sicilitudine di cui ci parla Sciascia; non potrei parlare di D´Alessandro senza andare con la mente al “Meriggiare pallido e assorto”di un Montale o a certi canti  di Terre lacerate e laceranti  come “Amara terra mia” e  “Creuza de ma´”.

Eppure i suoi  racconti hanno sempre un andamento leggero, tra fantasia e sogno, tra mito e bellezza. Sono disegnati, stilizzati, più che scritti. Sono tappe di una sorta di nomadismo poetico. E il dolore è spesso superato con il sorriso di una sottilissima ironia.

Sono racconti disegnati, dicevo, e, nella composizione  delle linee si cela sempre un palcoscenico  dove i personaggi si assiepano tutti lì, ancora da allora, in cerca d´ autore.

E, al di sopra tutto, coro nel coro, la cantatrice muta che, nel corso di una festa di matrimonio,  tanti anni fa, in un paesino dell´entroterra agrigentino,  si alza lentamente tra gli invitati, si avvicina all´orchestrina mentre tutti le fanno spazio e Il musicista inizia a suonare  facendole cenno con la testa che può iniziare …. Non parole escono dalla sua bocca, ma sillabazioni mimate: è un canto muto, una danza di parole in libertà alla Marinetti, parolibere soffiate, tutta una gestualità segnica, una mimica che si estende ed espande a tutto il suo essere, che la vede cingersi con le braccia e avvitarsi su se stessa come in una elegantissima  “danza  del cigno”.

Siamo solo all´inizio, ma, alla fine del libro, ci accorgiamo che D´Alessandro ha dato voce a un mondo di muti: muta è la cantatrice; muto è il bambino amico de “La ciavola”; muta è “La guardatrice dell´acqua”; muto è persino il protagonista di “Alle ore sette e venti”; muti sono tutti coloro i quali subiscono le telefonate di certe persone che parlano solo loro. E quando qualcuno parla, sarebbe meglio che tacesse come la  moglie testarda de “La seppia” che viene affogata in un pozzo, o come la bambina cocciuta che  viene derisa.

Muti, un mondo di muti. Muta è la stessa compagna dell´autore che tollera…tollera… fa finta di nulla. Finzione o amore? o missione civile?  O subdola costrizione? Ne vogliamo parlare?

Muti? Oppure un mondo dell´incomunicabilità?

Ci sono anche i sordi come quella figura goffa  del barone Cachia in “Cavallette ad Agrigento” e degli altri nobili e nobilastri che compaiono a poco a poco di qua e di là …. cavallette anche loro.  Ma l´esito è lo stesso: se non si sente non è possibile comunicare. Poi, nel corso della lettura, ci si accorge che, in questa pletora di diversi, nessuno è cieco, e ciò è ancora più frustrante perché vedere e non potere (o non sapere) raccontare è di per sé lesivo della propria dignità.

Non ci sono voci nel mondo che ci presenta D´Alessandro, eppure è un mondo vivo e vivido dove ci sono odori e sapori, fragranze e colori, ricordi di piaceri e piacevolezze ancestrali.

Ed è proprio qua che avviene il miracolo dell´artista che, a un certo punto, si sostituisce allo scrittore. Ricordo, a tal proposito, che  il grande Alberto Savinio superava i drammi del vuoto con la musica. Allo stesso modo D´Alessandro supera l´horror vacui della comunicazione  con la parola gettata nell´acqua e poi ripresa sulla carta. Che poi, è anch´essa musica.

E´  a questo punto che si crea una felice sintesi  tra arte, scrittura e musica che è poi il linguaggio universale che si alza al di sopra del silenzio dei Vinti di verghiana memoria, come una mano, tante mani, in cerca di aiuto.

Ed è proprio su queste mani imploranti che si cala impietosamente il sipario.

POTREBBE INTERESSARTI

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *