Il Re Leone, recensione con poche pretese

Partiamo dal presupposto che devo dire grazie alle Disney per aver deciso di puntare sui remake, così da colmare una mia inconfessabile lacuna: ebbene, non avevo ancora visto per intero Il Re Leone.
Non so come sono arrivata fin qui, ma potevano certamente farmi comodo Timon e Pumba nella mia infanzia, giusto per smollarmi un po’ e scoprire che “senza regole” è una regola da provare almeno una volta nella vita.

Ma andiamo a Simbuccio bello che manco il tempo di nascere c’ha il peso della società addosso e un’etichetta che lo segnerà per tutta la vita: un battesimo con trecento invitati, la faccia appesa sull’albero tipo presidente della Repubblica negli uffici pubblici, una relazione sentimentale fissata in agenda secondo i cicli di Nala, che però è pure la sua migliore nonché unica amica, quindi va bene così rotoliamoci e lecchiamoci a caso. Un padre che tutti amano per il solo fatto di esistere e respirare, che pronunci il suo nome e germogliano pure i fiori nelle dune del deserto, marito, padre, re, voce di uno che grida nel deserto, leone in arena e una sola grande disgrazia, il fratello stronzo che ti devi accollare ai pranzi di Natale. Fratelli coltelli.
Caino e Abele,
Noel e Liam,
Gabriele e Silvio Muccino,
Mufasa e Scar.
Cosa poteva venir fuori dal figlio di un re col mito paterno e un ruggito più simile a un mio sbadiglio al mattino, se non un enorme, devastante, incommensurabile senso di colpa?

Ad aggravare una situazione di per sé spiacevole senza neanche essere ancora giunta la morte di Mufasa, mettiamoci lo zio manipolatore che ti induce alla fuga, cioè a renderti invisibile rispetto alla tua stessa vita, quella per la quale avresti voluto giocarti la tua chance di stare al mondo.

Il ragazzo comunque cresce in virtù e cibo vegetariano, in una vita di stenti carnali ma ricca di ideali, dove l’armonia regna e la preda non deve preoccuparsi più del predatore (M5S, sei tu?), animali anarchici al riparo dalle leggi della savana, Hakuna Matata e si viaggia.

Vuoi che non arrivi la “fimmina cacazzi” che ti ricorda da dove vieni, chi sei stato e che è ora di assumersi le tue responsabilità e farti “na famigghia” (tanto il lavoro ce l’hai già, si u re!)
Nala, levati: “Voglio stare senza pensieri, torna a casa Lessie ma prima facciamoci un giro”.

Nel frattempo Timon e Pumba nel pieno della loro fase adolescenziale e invischiati in un rapporto simbiotico col bello de casa, si rendono conto che esiste tutto un mondo fatto di leonesse dal pelo lucido e zampettano pure loro fra le dune del deserto, consapevoli di andare incontro a morte certa.
(Parentesi sulla cacca della giraffa che è uno snodo importante nel cerchio della vita).

Mufasa era morto da un pezzo. Sorvoliamo perché il live action ha assai spento le emozioni dei personaggi e quindi pure le mie. Ma anche la morte fa parte della vita, quindi morta una criniera se ne fa un’altra. 

Simbuccio si ricorda chi è anche grazie a Macaco che gli mostra la via, la verità e la vita e forse gli da qualcosa pure da fumare visto che S. inizia a sentire chiaramente i moniti del padre tuonare fra le nuvole e i sassi.

Riscopre un coraggio che aveva, e che un giorno lo aveva portato nel cimitero degli elefanti. Simba non combatte perché è il figlio di Mufasa, piuttosto perché conosce adesso male e bene, figli semmai del dolore e della perdita.

Torna a casa con la flotta di Pike e depone Cercei dal trono distruggendo col fuoco la sua dimora (crossover a caso).
Scar muore male mangiato dalle Iene (resta vittima cioè del suo stesso inganno).
Menzione d’onore a Sarabi che da buona matriarca non ha smosso il culo dalla roccia dall’inizio alla fine.
E a Zuzu che ci insegna una cosa fondamentale: la lingua ferisce più della spada, sfinisce sicuramente.

Simbuccio e Nala figliano e ricomincia una vita di traumi, o un cerchio di disagi.

 

 

Sofia D’Arrigo

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