Coronavirus, lettera di una siciliana rientrata: “sono tra gli stronzi che sono fuggiti, ecco perché”

Riceviamo e pubblichiamo la lettera firmata di una concittadina rientrata dal nord, in questi giorni di caos da Coronavirus.
Di seguito la missiva

Amici,
sono giorni fuori da ogni comprensione. L’ultimo baluardo del nostro equilibrio mentale – lo leggo – è situato nei continui richiami alla responsabilità e al senso civico.
Uno degli aspetti più strani da decifrare per me sono le tempistiche: il mio richiamo alla responsabilità sui social era arrivato già mercoledì scorso, nelle vostre condivisioni invece, nelle ultime 48 ore.

Perché? C’è una percezione ritardata del fenomeno fra nord e sud. Quando il 24 febbraio è arrivata comunicazione della chiusura dell’Università, è crollato l’intero assetto della mia semplice vita in città: niente lezioni, niente colleghi, niente caffè, niente biblioteca o palestra. La paura mi ha fatto aggiungere all’elenco pub e uscite con amici.
Ho scelto in autonomia di limitare la mia vita sociale, ho dato fondo alla dispensa, ho smesso di prendere i bus. Le mie coinquiline hanno subito lasciato il nostro appartamento per tornare a casa e come alcuni di voi sanno, ho smesso di avere chiunque intorno.

Nelle due settimane successive sono stata due volte al parco sotto casa quando c’era il sole e una volta al supermercato quando avevo finito il tonno e le verdure.
Ho resistito abbastanza facilmente fino pochi giorni fa, quando la prospettiva del ritorno alla normalità è svanito.
Avevo programmato tempo addietro il mio rientro in Sicilia per il 15 marzo e quello a Parma il lunedì successivo (23). Ryanair ha cancellato quest’ultimo volo. Qualcosa ha iniziato a scuotermi, non mi sentivo più padrona di niente e la tensione si ripercuoteva tutta sulla schiena. Dolori, torcicollo, mal di testa. Sono entrata in un loop di ansia e paura, mi aggrappavo solo alla certezza che sarei stata presto con la mia famiglia, almeno, potevo litigare con qualcuno.

Così ho deciso di anticipare il mio volo a domenica 8 marzo. Ho chiesto a mia madre di lasciare un bagno solo per me e una stanza. Avremmo circoscritto la mia presenza in casa. E avrei osservato un altro periodo di auto isolamento. Bene. Almeno ci sarò per la laurea della mia amica. Almeno, andrò sulla 113 fino alla spiaggia. Almeno… questo era il tenore dei miei pensieri.
Sabato 7 marzo intorno alle 21 il castello di carta che avevo messo in piedi per sopravvivere a questa subdolo male, è andato in frantumi.
Il telefono scoppiava di notifiche e a mala pena sono riuscita a capire che entro poche ore sarei rimasta in trappola. La città era zona rossa.
Nessuno entra, nessuno esce.

Ho sentito le mura delle casa stringersi attorno a me, gli odori farsi nauseanti, la banalità dei piccoli gesti impossibili.
Ma c’era ancora un modo: scappare.
Sbagliato. Scorretto.
Vi vedo, vi leggo, vi comprendo. Sapevo tutto alla perfezione sulle norme perché in caso di pericolo, sarei stata sola. Ero sola da settimane e questo mi ha obbligata a rimanere salda e lucida. Dovevo bastare a me stessa in caso fosse accaduto qualcosa. Qualcun altro può dire lo stesso? C’è qualcuno di voi che può comprendere questo esatto scenario?
Sì. Sono gli stronzi che sono saltati sui treni.
Sono io.
Alle 21.45 ero su un treno in direzione Bologna. Mi hanno accolta parenti di parenti.
Dovevo prendere quel volo.

Ieri mattina il nostro Presidente Musumeci a cui rinnovo la mia stima per il modo in cui sta gestendo la situazione, ha deliberato la quarantena per chiunque tornasse da zone a rischio.
Ieri sera, dopo un lungo pomeriggio di tristezza, paura, senso di colpa, appena si è formata ai miei occhi la prima costa siciliana visibile dall’aereo, ho pianto.
Sul marciapiede dell’aeroporto ho chiamato il mio medico curante, poi il sindaco del mio paese.
Mi hanno ringraziato per la responsabilità.
Mia sorella mi ha consegnato le chiavi della sua auto, lei è salita nell’altra con mio padre che mi salutava da lontano.
Ho indossato dei guanti in lattice prima di toccare il volante.
Ho guidato in lacrime fino a casa.
Mi trovo in un appartamento che i miei hanno predisposto appositamente.
Mio padre ha qualche problema respiratorio, mio fratello è asmatico. Non avevo pensato a questo finché qualcun altro non mi ci ha fatto riflettere.
Non mi hanno mai detto di non tornare, ma hanno rinunciato ad abbracciarmi perché sanno che così va fatto.
Come mi sento non conta. Farò la mia quarantena nella consapevolezza di avere attorno i miei luoghi sacri.
Ho letto i post più sprezzanti in queste ore, non voglio dare adito a questi superflui commenti. Così come non cerco giustificazione: sono scappata e poi mi sono autodenunciata.
Non fa ridere?

Dunque le mie prigioni hanno cambiato mura, ma ora si intravede benissimo una fine.
Quello che non sappiamo invece è che volto ha l’infetto.
Beh, non del tutto: forse potrò dirmi pulita fra 14 giorni da questa storia. Ma sarà stato assolutamente vano se nel frattempo i contagi si innescano anche in Sicilia.
Voi che potete ancora non rimanere soli, preservatevi altrettanto.
Mi dispiace molto per tutto.

Posso unirmi all’appello di chi chiede – certamente preoccupato per l’inevitabile collasso del nostro insufficiente per quanto dignitoso sistema sanitario – di restare fermi, lontani, rinchiusi. Posso chiedere di fare come me che ho infilato i miei vestiti in un sacco nero e l’ho lasciato dietro la porta.
Quella santa donna di mia madre lo ritirerà in cambio di un piatto di lenticchie calde.
Non è così male, a volte. A volte invece, è terribile, perché non ti ricordi più come ci sei finito dentro e ti senti spezzato, triste, impotente e piccolo.
I vostri toni duri sono schiaffi, per me che sono da questa parte.
Non è la quarantena a farmi paura adesso, ma il rigetto.
L’accusa mossa di non amare la mia terra, il mio paese.

Non ho morale finale. Se c’è non l’ho capita, ma una consolazione la vedo: stavolta ci siamo accorti della nostra fallibilità.
Come singolo, come società, come istituzioni… i nostri limiti sono tangibili. E se non altro, può essere un punto per ripartire, presto.
Sto bene, resto lucida e forte, ma è era giusto dare spazio al mio dolore.

C’è un ponteggio nel palazzo accanto e muratori appesi che quasi potrebbero saltare in casa. Mi affaccerò dopo le quattro magari, quando se ne andranno.
Se attaccano il trapano, m’incazzo eh.
Dalle mie prigioni alle mie ossessioni è un attimo.

Con devozione,

Irene.

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