L’arte di Santi Vitrano tra cultura e società

“Su le rose si possono fare poesie, le mele bisogna morderle”

(Johann Wolfgang Goethe)

Santi Vitrano celebra cinquanta anni della sua arte. Io ho il compito di contribuire affinchè questo evento non passi inosservato, ma nel farlo procedo in punta di piedi e scusandomi fin da principio se nelle mie parole verrà fuori quanto poco esperta sia in materia. Ma non è certo per questo che il professore Vitrano, appellativo con cui l’ho sempre conosciuto, mi ha coinvolta, avvicinandomi così a un mondo personale, dentro il quale mi muovo con discrezione e limitandomi a posare lo sguardo sulle sue opere. Ha il piacere che io esprima quello che penso e nel farlo, mi comporterò come una allieva a scuola, intimorita dall’insegnante che sollecita la sua partecipazione: così azzardo un’opinione, cercando di non preoccuparmi troppo delle conseguenze e talora, ostentando una certa impertinenza.

L’arte di Santi Vitrano è tutto ciò che so di lui, pur legati dalla comune appartenenza al luogo di origine, al posto che entrambi chiamiamo casa e che attraverso i suoi occhi, sono tornata ad apprezzare perché ci sono tanti modi con cui si può raccontare qualcosa, ma è solo uno quello in cui ciascuno può farlo. Così il mio sguardo è rimasto catturato da uno dei dipinti esposti presso la Torre del Marchese forse tra i meno attraenti o più anonimo, ponendomi di fronte a un quadro che tutti i giorni posso osservare anche dal vivo: è la statale 113 che attraversa Finale sulla Via Libertà, poco dopo l’ingresso del paese e in direzione Palermo; solo, è un quadro di circa trenta anni fa, quando le facciate dei palazzi non erano ancora complete e sulla destra non era ancora sorto il rifornimento di benzina. Certo, c’era già l’asfalto e il casello dell’ANAS, ma sulla sinistra era ancora un grande albero a fare da padrone. La mia casa, quando ancora non ero neppure nata, Santi Vitrano me l’ha restituita raccontandomi di un passato che è stato costruzione e crescita, e nei colori vivi del dipinto, una certa speranza.

Non potrebbe essere altrimenti per un uomo che attraverso l’arte ha fatto della cultura il suo di più e, aperto e libero, l’ha messa al servizio di tutti, mirando già un orizzonte in cui capeggiava la parola futuro. Santi Vitrano ci ha visto lungo insomma, come solo chi si apre ad altri mondi, quelli che può vantare nel suo curriculum, sa fare. E ha lavorato perché ciò rientrasse e si diffondesse a Pollina, dove ha scelto di far crescere i suoi figli e dove è tornato, da buon siciliano, nostalgico e sognatore. E’ rincuorante sapere di un Santi Vitrano a Pollina: un uomo libero che esprime ciò che è con passione e dedizione, svelando la sua anima e privandola di sovrastrutture: così i nudi di donna, ora bellezza, ora dolore; così le scene del quotidiano, storie di storie che si perpetuano in usi e pietre incastonate nelle rocce come nella memoria.

Così i ritratti, veri, intensi, vivi. Nelle opere di Vitrano alla cultura si lega inesorabilmente la società, a convinzione di un’impossibile scissione tra ciò che siamo e ciò che potremmo diventare. Un paese virtuoso, una casa per l’arte, una tappa fissa per i visitatori ma che non può non ripartire dai volti, dalla gente e dai suoi bisogni. In questa analisi, come è naturalmente venuto fuori dal nostro incontro, i giovani hanno un ruolo cruciale: come tra chi semina e chi raccoglie, come chi osa ma si incammina su un solco già tracciato. E’ questa la consegna di Santi Vitrano, dopo cinquanta anni, a quanti verranno: intraprendere con coraggio un percorso, vivere con grazia anche le sofferenze, interessarci al mondo circostante con riguardo, compartecipazione e spirito di servizio, amare la libertà, nella ricerca incessante della stessa. Grazie professore!

Sofia D’Arrigo

 

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